Marco Petrus | Monografia Marco Petrus, intervento Guido Canella
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Intervento del professor Guido Canella

Testo raccolto il 28 Aprile 2003

Mi sentivo in debito con Marco Petrus perché più o meno è della generazione dei miei figli, io potrei essere suo padre. I miei figli hanno cominciato a portarmi a casa dei suoi cataloghi, poi due o tre quadri e, poco per volta, guardando questi quadri, ho scoperto che c’era una strana assonanza tra gli interessi e la ricerca di Marco e dei miei interessi giovanili che appunto guardavano a Milano.
Milano si sa è una città bellissima per chi la sappia scoprire, purtroppo manca di appariscenza, cioè occorre conoscerla molto bene e forse anche con un po’ di storia per poterne apprezzare i monumenti, uno di questi è proprio qui davanti alle Stelline, è una delle architetture che io amo di più e che considero di valore assoluto. Ma l’interesse di Marco era un interesse che riguardava una certa zona di espansione della città, almeno così mi sembrava, che raggiungeva sì la periferia, ma che si soffermava soprattutto su una fascia della prima grande espansione di Milano, degli anni Trenta. Questa fascia di espansione è una fascia abbastanza particolare e straordinaria, nel senso che, diversamente dalle altre città italiane, che hanno una struttura per capisaldi monumentali, per prospettive, in un certo senso guidate, per vuoti che in qualche modo fanno apprezzare sempre di più il pieno monumentale, questa fascia di Milano è una fascia a corridoio, a canale, è una fascia che, in altre parole, mostra che questa Milano dell’espansione economica e commerciale degli anni Trenta, prima della crisi del ’29, fosse una città paratattica, ossia una città di sequenze, più che di sintassi, cioè di gerarchia. L’interesse per questa città, il fatto di cogliere in questa fascia di Milano un’essenza particolare di Milano, mi chiedevo: “Come ha potuto ispirare un giovane pittore?”
Architettura dipinta e città dipinta. Riflettevo tra me e me e mi dicevo: “ Ma è possibile dipingere l’architettura?” e ragionavo e pensavo a De Chirico, per esempio, al De Chirico di Ferrara, dove nasce la Metafisica, a De Chirico che passa per Torino per andare a Parigi all’Esposizione del ’12 dove mostra i suoi primi quadri metafisici, e va a cercare la Torino di Nietzsche, città così ordinata e in un certo senso così enigmatica, e poi pensavo via via ad altri casi. Pensavo a Scipione, per esempio, alla Roma barocca di Scipione, anche questa colta nei suoi capisaldi, nel suo dorato disfarsi, pensavo poi, questo è ovvio, a Sironi, a Sironi dei paesaggi urbani, delle periferie e i primi quadri di Petrus mi sembravano un po’ legati a quest’atmosfera sironiana, espressionista si dice ma è indefinibile la pittura di Sironi. Per chi non viva e capisca Milano, naturalmente mi esprimo da architetto, non da storico o critico dell’arte, credo che sia indefinibile, credo ci sia qualcosa in più che sfugge. E poi pensavo ad altri casi, pensavo a Sant’Elia futurista. Ma dov’è il futurismo di Sant’Elia? A me è sempre sembrato che il futurismo nell’architettura disegnata e dipinta di Sant’Elia sia un futurismo alla Wagnerschule, cioè con un’influenza della Secessione viennese, di futurismo ci sia ben poco, ci sia stata forse una sopraffazione da parte di chi guidava il Movimento futurista in quel momento, per esemplificare: una città fatta di monumenti o edifici ciclopici, ma la cui base e la cui grana è la grana novecentista, insomma una città paratattica.
Una città soprattutto, quella di Petrus che è dipinta negli anni Trenta, negli anni del Novecentismo milanese. Voi avrete sicuramente ritrovato, pur non esperti, dei dettagli, degli interi edifici, che sono quelli di Ponti, di Gerla, di Pasquali perfino, Muzio, Lancia, eccetera. E dicevo, come mai su queste architetture si è appuntato l’interesse di Marco Petrus? Me lo chiedevo e pensavo perché per esempio, non sull’architettura razionalista, sulla nudità bianca del Razionalismo, di cui qualche esempio c’era a Milano, in Lombardia, a Como ? Poi scorgevo che però si arrivava dagli anni Trenta al Dopoguerra e, non a caso, nella pittura di Petrus subentra anche l’architettura di quelli che vennero chiamati architetti razionalisti e che nel Dopoguerra riscoprono il bassorilievo, gli sbalzi, l’arrotondamento degli spigoli. Quindi c’è una continuità, una scelta, di gusto, si potrebbe dire, usandolo nel significato di Lionello Venturi, un gusto che non è soltanto una riscoperta di moda, ma qualche cosa che si affida a questo periodo, che è il periodo costruttore della città. La città non dei suoi monumenti, ma quali sono i monumenti appariscenti di Milano? Questa brutta piazza del Duomo che ci ritroviamo, lo so che magari offendo il patriottismo di molti milanesi, ma Milano è una città che, o si coglie nelle sue contraddizioni, nel suo modo di negarsi a un rapporto così di gerarchia, di riferimenti, di convenzionale modo di intendere, seppure a noi Italiani che siamo abituati alla città italiana, più che forse altri (forse alcuni tedeschi della valle del Reno) siamo abituati a capire che cos’è il valore di una città e qual è la sua denotazione fatta attraverso i monumenti.
Dicevo, come mai non il Razionalismo e invece ritrovavo poi quegli architetti che facevano parte poi del Movimento moderno italiano, il cosiddetto Razionalismo italiano, in questo loro risvolto del Dopoguerra. Mi chiedevo, sempre ragionando da architetto, ma è impossibile raffigurare la città del Razionalismo? C’erano stati dei casi, mi sforzavo di pensare, c’era per esempio Fernand Leger, il pittore prediletto da Le Corbusier, che dipingeva i costruttori, che combinava delle macchine, in cui la figura umana era tutt’uno con il meccanismo. C’erano poi dei pittori, quelli cosiddetti della Neue Sachlichkeit, cioè della Nuova Oggettività tedesca e mi veniva da pensare questa nuova oggettività, questo rendere soggetto l’oggetto in pittura, non veniva da una specie di sublimazione espressionista che, mano a mano, arriva quasi quasi alla negazione della deformazione per riproporre la cosa, l’oggetto qui ed ora per come era, per come è? Pensavo quindi che scavando nella pittura di Marco si potesse trovare un processo per certi versi analogo, cioè un processo che partiva da un quadro che io ho a casa e che, non a caso, tengo in camera da letto perché prima di leggere lo guardo spesso . E’ un quadro che sulla sinistra ha un caseggiato con un certo partito architettonico di tipo novecentista, sulla destra un fabbricato che potrebbe essere industria o uffici, di due epoche diverse e in mezzo scorre come un fiume una ferrovia , con una larga curva che mi ricordava la larga curva di certi quadri di Sironi, della periferia, dove questo fatto di dare questa curvatura alla dinamicità della città che si sta facendo moderna , che si sta facendo industriale e commerciale allo stesso punto ( a differenza per esempio di Torino che invece è tutta industriale) c’erano delle cose che riportavo a questa iniziazione sua. Ma poi ultimamente nelle pubblicazioni che mi ha fatto avere (mi ricordo che a un certo punto ho scritto a Marco e gli ho detto dell’interesse e della stima che avevo, anche per queste assonanze) c’è come una scossa, qualcosa che irrompe improvvisamente, c’è per esempio l’abbandono di un cupore sironiano e si accendono delle luci, queste luci più che solari sono quasi luci artificiali, abbaglianti quasi, i colori non sono più le mezzetinte della modernità, sono colori squillanti, forse di una modernità d’avanguardia, rischiosa. E poi c’è un aspetto che è quello del sotto-sopra, c’è un frammento di un edificio e poi sopra c’è quasi lo stesso frammento che apre un varco di cielo fra questi due elementi, e poi alla fine, nelle cose più recenti c’è quasi una visione caleidoscopica, quasi che queste immagini della Milano paratattica entrino e aprano un interrogativo.
Io leggevo le belle pagine che hanno ispirato molti autori e studiosi sulla pittura di Petrus e giustamente questi autori parlano di una Milano che corre in parallelo a certe fotografie, a certe immagini di Basilico, di una pittura del paesaggio milanese che non è metafisica, non è espressionista, è una pittura realista (non nel senso che siamo abituati ad attribuire a una certa epoca del Realismo e del Neorealismo) pittura realista in quanto del reale. Io invece penso che dietro questi quadri, con tutta la verità che tutti questi studiosi e critici hanno messo in luce, ci sia come una forma di enigma.
E’ un po’ il controcanto a quanto Alessandro Riva diceva poco fa a proposito dei “nonluoghi”, è un termine ormai convenzionale: il “nonluogo” è questa ricerca dell’universale attraverso un modo di comportarsi che è uguale addirittura nello scenario del mondo e della nostra società attuale. A me sembra invece, che questo enigma di Petrus sia invece una ricerca di un universale diverso, di un universale che per definirsi tale deve cercare nella propria identità , insomma una trincea dell’identità, e che a Milano , io credo, parta proprio da quello, non cioè da una pittura di paesaggio da cavalletto, ma parta dalla parte della città costruita, della città anche più convenzionale e banale, se vogliamo. Questa ricerca dell’essenza di Milano è alla base di questa ricerca e questo enigma è ancora un enigma da sciogliersi, non attraverso la pittura, ma un enigma che la città stessa, l’arte intellettuale, quello che pensano coloro i quali si ritengono artisti, devono in qualche modo affrontare e disporre nel tempo.