Marco Petrus | Michele Bonuomo, Vedute, punti di vista e capricci di Marco Petrus
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Michele Bonuomo,
Vedute, punti di vista e capricci di Marco Petrus

in Capricci veneziani, Marsilio Editori, Venezia 2023

In esergo a “L’impero dei segni” Roland Barthes svela gli estremi del metodo da lui applicato per mettere ordine a quanto gli è capitato di osservare nel corso di un viaggio compiuto in Giappone: luogo in cui verifica come la pratica del segno, meglio d’ogni altra disciplina espressiva, possa dar forma e sostanza a un più ampio sistema di rappresentazione. Rileggendo oggi la sua perlustrazione nel “paese della scrittura”, punteggiata da improvvise illuminazioni concettuali e da inattese apparizioni visive solo all’apparenza didascaliche, si è confortati dalla sua offerta di uno schema di pensiero che ci consente di chiarificare anche la pratica e il destino della pittura dei nostri tempi: «Il testo non “commenta” le immagini, le immagini non “illustrano” il testo: ognuna è stata per me soltanto l’inizio di un vacillamento visivo analogo probabilmente alla perdita dei sensi che lo Zen chiama satori; testo e immagini, nel loro intreccio, vogliono assicurare la circolazione, lo scambio di questi significanti: il corpo, il viso, la scrittura e leggervi il distacco dei segni». (1) Per Barthes, un’impressione repentina o una fuggevole illuminazione come quelle che ad esempio danno forma a un haiku, componimento poetico per eccellenza nella tradizione giapponese, non si trasforma in descrizione ma si dichiara come istante “intrattenibile”: frammento ridotto al massimo della sua essenza, per riconnettere echi e visioni lontani, memorie remote e nostalgie future.
Un metodo, quello praticato da Barthes, che si attaglia perfettamente alla coerente e ininterrotta evoluzione della disciplina pittorica di Marco Petrus, che nel ciclo dei Capricci – messo a punto anch’esso con disciplina zen – trova un punto d’arrivo di una ricerca lunga e rigorosa e scatto accelerato per nuove esperienze e dichiarazioni pittoriche. Andando oltre le sue passate e iconiche visioni di “città senza abitanti” di novecentesca memoria – quelle ormai celebri in cui un iconico episodio architettonico si è solidificato in una forma assoluta ai limiti dell’astrazione, le stesse che lo hanno caratterizzato come uno dei pittori italiani più autorevoli della sua generazione – e, successivamente, restringendo e riducendo il suo punto di vista ai frammenti lenticolari del ciclo Matrici, provocati dalla “controversa bellezza” delle Vele di Secondigliano, Petrus ha dato forma ai “frammenti-mondo” dei Capricci: potenti schegge espressive che prendono le mosse da illuminazioni scovate e cavate in celebri e affollati teleri quattro-cinquecenteschi veneziani. Dettagli forse marginali per un osservatore distratto, ma sostanziali per lui. L’impressione accelerata in Petrus da questi improvvisi lampi visivi e la memoria profonda che egli stesso ha della storia dell’arte danno luogo una sorta di mise en abîme della sua visione pittorica. E così, il “frammento di un frammento”, depositato nei più profondi recessi della grande tradizione, attiva un rigoroso dispositivo di riflessione formale.
Dei tantissimi dettagli presenti nella complessa macchina vedutistica che è il Miracolo della reliquia della Croce al Ponte di Rialto, dipinto da Vittore Carpaccio tra il 1492 e il 1494, e degli altri che affollano il Miracolo della guarigione della figlia di Benvegnudo da San Polo, dipinto una manciata d’anni dopo da Giovanni Mansueti (1502), entrambi teatri veneziani animati da una studiata fantasia razionale, Petrus sceglie quelli che gli consentono di trasformare il concetto di “veduta” in un autonomo e originale “punto di vista”. Così facendo si concentra su un dettaglio a prima vista ininfluente nella narrazione complessiva – nella fattispecie le linee di forza e il dinamismo innescato dalle braghe di un valletto o di un gondoliere, comparse non meno significative degli altri protagonisti dell’intera rappresentazione pittorica – ma che, uno volta scoperto, diventa emblematico nelle tessiture pittoriche dei due maestri veneziani e paradigmatico nella definizione che, a sua volta, Petrus attiva per un gioco visivo che va ben oltre la citazione formale. La complessità vedutistica di eccelsa “verità ottica” presente in Carpaccio e Mansueti accelera in Petrus un meccanismo di elaborazione di forme dinamiche che generano geometrie di colore e di segni in continua trasformazione, come per una sorta di esercizio contrappuntistico giocato su un unico tema musicale.
Il “punto di vista” di Petrus, affermato nel ciclo dei Capricci, pur prendendo le mosse da quell’idea di “veduta” che ha caratterizzato la sua ricerca precedente, da essa se ne distanzia aprendosi a un esercizio della memoria ancora più rarefatto e assoluto. Ed ecco, allora, che in queste nuovissime tele il pretesto si fa testo, il sottinteso si dichiara esplicito. Un punto di vista, dunque, che comunque è sempre stato sotteso alla sua idea di pittura: sentirsi cioè parte di un mistero quasi impossibile da spiegare attraverso schemi troppo spesso riduttivi e partigiani e che nel tempo e in tanti casi hanno limitato il senso più profondo del fare pittura. Un mistero, allora, che non pretende di essere spiegato, ma che obbliga chi vi si avvicina a celebrarlo senza enfasi declamatorie e nel silenzio più sacrale. Sarà per questo motivo che la parola scritta – intesa come codice condiviso per testimoniare e indirizzare l’esistente – si è affermata solo molto tempo dopo il gesto assoluto e magico lasciato dall’impronta di una mano impressa nel buio di una grotta primordiale: primo punto di vista sul mondo, gesto fondativo della pittura e immagine seminale che l’uomo ha saputo restituire di se stesso. «Ogni immagine», scrivono David Hockney e Martin Gayford, «più che del soggetto, ci parla dello sguardo dell’autore (…). La prima persona che disegnò un piccolo animale fu osservata da qualcun altro, e quando quest’altro vide di nuovo l’animale lo percepì forse un po’ più chiaramente. Lo stesso può dirsi del toro dipinto oltre 15000 anni fa in una grotta della Francia sudoccidentale: l’immagine non raffigurava l’animale in quanto tale, ma era la testimonianza, riprodotta su una superficie, che l’artista l’aveva visto. Questo è tutto ciò che si può chiedere a un’immagine». (2)
I Capricci sono il punto di vista che Marco Petrus ha soprattutto sulle vicende che hanno fatto grande e imprescindibile la tradizione della pittura italiana. Quella stessa che oggi gli ha permesso di trovare frammenti di contemporaneità nei “teatri” affollati di Carpaccio e Mansueti e declinarli, per esempio, con i dinamismi luminosi di Giacomo Balla, con i rigori formali di Mario Sironi, con le partiture cromatiche e razionali di Atanasio Soldati, Luigi Veronesi e Manlio Rho, con le astrazioni di Mario Radice, Mauro Reggiani e Alberto Magnelli o con quelle più rarefatte di Piero Dorazio. È questo il pantheon in cui Petrus onora i numi tutelari della sua pittura, ben consapevole dell’importanza di appartenere a una tradizione che, come affermava Gustav Mahler, non è culto delle ceneri, ma un’inesauribile custodia del fuoco. Oggi che finalmente la “pittura dipinta” ha ritrovato una centralità nelle pratiche dell’arte – dopo troppe e inutili variazioni e deviazioni di snervati accademismi contemporaneisti e nonostante eccessi di ideologismi pretestuosi e di censure dettati da insopportabili prese di posizione “politicamente corrette” – è diventato urgente riaffermare un principio di adesione a fondamenti formali, concettuali ed etici che testimoniano la propria storia, che dichiarano e difendono punti di vista che non ammettono omologazioni e rese incondizionate a un’inaccettabile dittatura di pensieri dominanti.
Tutta la storia dell’arte di Marco Petrus è nel segno di una forte e ininterrotta identità italiana – a volta allusa in un gioco di memorie, altr’ancora concentrata in un frammento astratto o in quegli improvvisi vacillamenti visivi e perdite di sensi di cui parlava Barthes, prodotti da un’illuminazione mai ridotta a semplice descrizione. Il ciclo dei Capricci ne è testimonianza eccellente. C’è un altare anche per Marco Petrus nel pantheon della grande tradizione italiana.

(1) Roland Barthes, L’impero dei segni, Einaudi, 1984.
(2) David Hockney e Martin Gayford, Una storia delle immagini. Dalle caverne al computer. Einaudi, 2021.