Marco Petrus | Michele Bonuomo, Marco Petrus, stile di città
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Michele Bonuomo, Marco Petrus, stile di città

in Atlas, Johan&Levi editore, Monza 2014

Le città di Marco Petrus sono immobili e destinate a un’ibernazione che non prevede disgelo. Non salgono con dinamismo boccioniano, né sprofondano in cupi anfratti piranesiani, né sono scosse da improvvisi tremori come nelle irrequiete allucinazioni di Monsù Desiderio.
Le città di Petrus sono mute. All’interno non si odono le voci degli abitanti né i rumori di fondo dei loro stati d’animo. In una quieta rappresentazione che va oltre l’apparenza fisica della realtà (De Chirico s’intravede come in un miraggio evanescente), la memoria dell’artista si alimenta di frammenti per un dialogo silenzioso, scandito da immagini a lui molto familiari; e, attraverso progressive manipolazioni, la ricompone in una nuova identità formale. Così facendo, la memoria dà luogo a un esercizio di pittura fatto di precisione che Petrus, senza difficoltà, pratica e controlla con rigore monastico. La sua passione per l’architettura novecentesca e la sottile nostalgia di un perduto ordine estetico – ragione e il sentimento di tutta la sua pittura – sono alla base di una pratica che si è fatta stile: un termine, quest’ultimo, scomparso non si sa perché dal vocabolario della contemporaneità, ma che nel caso di Petrus è presente con chiarezza e senza alcun’imbarazzo.
In un mondo e in un’epoca dove tutto scorre e si consuma in superficie, sembra che non ci sia più spazio per lo stile inteso come insieme armonico e concluso di forma e di pensiero. La pittura di Petrus, forte di un’identità inequivocabile e, quindi, di un canone sapientemente organizzato, è in netta controtendenza rispetto a tante forme di contemporaneità ridotte in troppi casi ad esercitazioni accademiche e a snervate variazioni sul tema di esperienze fuori tempo massimo, ora definitivamente archiviate. A un secolo di distanza dalle più fulminanti “dichiarazioni” di Marcel Duchamp, estreme e necessarie nel tempo in cui vennero formulate, è incredibile vedere ancora tanti artisti gingillarsi con jeux de mots e provocazioni che non provocano: i copywriter e i pubblicitari forse sanno fare di meglio, ma a nessuno verrebbe in mente di archiviare il loro operato alla voce “arte”! La pittura ha bisogno di ritrovare una quieta remora, così da dimostrare che l’unica provocazione che ancora può essere messa in atto sta tutta nella tenace volontà di riempire se stessa di senso e verità.
Un pittore, dunque, può definirsi tale se è ancora capace di parlare la lingua viva e inesausta della pittura, cercando e trovando nel suo vocabolario parole nuove per raccontare l’emozione di un pensiero. Se oggi ci appaiono consumate le dichiarazioni provocatorie di Duchamp, troviamo invece ancora fertile la lezione di rinnovamento della pittura tenuta da Mondrian e in essa rintracciamo le radici più tenaci della lingua di Petrus: «… Il nuovo spirito si distingue per la certezza. Esso non pone alcuna domanda bensì offre una risposta. La coscienza umana riflette in modo assai chiaro l’inconscio e si esprime nell’arte nella misura in cui realizza l’equilibrio in modo da eliminare ogni dubbio. Il dominio del tragico è terminato. La vecchia pittura era una pittura dell’anima, e quindi del tragico; la nuova pittura è una pittura dello spirito, e perciò è libera dal domino del tragico. Questa differenza sostanziale richiede un’estetica completamente nuova. Essa sarà fondata sul seguente principio: equilibrio fra il naturale e lo spirituale, fra l’interiorità e l’esteriorità».
Le città di Petrus, e dunque la sua pittura, sono fondate anch’esse su un principio di equilibro, raggiunto dall’artista attraverso quella forte concentrazione formale che gli ha garantito la messa a punto di un intransigente canone pittorico. Così facendo, Petrus ha trasformato il sistema della rappresentazione in metodo di indagine del pensiero, piuttosto che in esibizione virtuosistica del vero(simile). D’altronde, se così non fosse, mai come oggi la pittura sarebbe in perenne ritardo al confronto di quelle soluzioni tecnologiche che offrono senza sosta sofisticate “meraviglie” visive. La disciplina con cui Petrus pratica la pittura lo mette al riparo da tali rischi e, allo stesso tempo, gli consente di aggiungere – tela dopo tela, disegno dopo disegno – nuovi elementi alla costruzione del suo stile. Elaborando rarefatti equilibri compositivi, Petrus forza i limiti della superficie della tela o della carta, e si concede l’opportunità di individuare ulteriori variazioni di una forma dipinta. Per lui, dunque, quale migliore occasione per fare pittura di una muta forma architettonica fatta solo di linee e volumi, di vuoti e di pieni, e quale miglior “modello” da mettere in posa di un brandello enigmatico di città che gli appartiene? La scelta di dipingere frammenti di architetture novecentesche a lui molto familiari, colti da punti di vista inaspettati o isolati in prospettive vertiginose che ne dilatano il tempo e lo spazio, gli permette di dare forma a visioni “altre” e a rarefatti piaceri della mente.
Come le sue città, anche la pittura di Petrus è silenziosa. È fatta per pensare più che per agitare stati d’animo: e così, nei suoi “atlanti” di città reimmaginate le passioni si stemperano in proiezioni azzardate, in tagli irreali, in dettagli così stressati da trasformare, per esempio, un segno razionalista di Terragni o una sentimentale eco classicistica di Muzio o di Portaluppi in rarefatte astrazioni, che si stagliano immobili contro fondi monocromi e piatti come in una icona di Rublev o in una tavola di un primitivo toscano. Se per successive scarnificazioni l’albero di Mondrian ha perso i suoi connotati naturalistici per diventare solo una “composizione” euritmica di linee nere e di campiture bianche, rosse, blu o gialle, che contiene tutte le possibili forme dell’idea dell’albero, i frammenti di Marco Petrus – tutt’insieme – compongono la più calma e rassicurante idea di città, dove è piacevole far vagare gli occhi e costruire ancora un pensiero.