Elena Pontiggia, Marco Petrus. Dalla rappresentazione al ritmo
in Marco Petrus Antologica 2003-2017, Marsilio Editori, Venezia 2018
in Marco Petrus Antologica 2003-2017, Marsilio Editori, Venezia 2018
Marco Petrus è, ormai da venticinque anni, un pittore di architetture. È un artista che ha impostato ostinatamente la sua ricerca sul tema della costruzione. Eppure, come si può notare anche in questa mostra, l’architettura non esaurisce tutto quello che Petrus vuole dire. Forse, più che un soggetto, è una metafora.
Per spiegarci meglio, proviamo a vedere che cosa rappresenta l’architettura nei suoi quadri. Petrus, attraverso la raffigurazione dei capolavori di Muzio o Terragni, di Varisco o Portaluppi (per citare solo alcuni nomi tra i tanti che ha toccato e interpretato), ha dipinto non solo quelle architetture, ma anche l’equilibrio o, più spesso, lo squilibrio in cui siamo immersi. Ha dipinto l’ordine, la capacità costruttiva, la vocazione propositiva, ma anche le torri di Babele che incontriamo nella nostra vita. L’architettura, nei suoi quadri, diventa anche qualcosa di pericolante, quando con la fine degli anni Novanta i suoi edifici iniziano a inclinarsi, a pendere obliquamente come moderne torri di Pisa. Oppure diventa qualcosa di enigmatico e di incongruente, quando i frammenti delle costruzioni non stanno più insieme e i conti non tornano più.
Non si tratta di un contrasto solo formale. Le sue composizioni oscillano tra un’idea di riposo, di staticità, di quieta tranquillità e tranquilla grandezza e, al contrario, un’idea di irrequietezza, di metastasi, di congestione visiva. L’insieme dei suoi quadri, allora, non parla solo della città, ma anche della vita moderna. Che è un insieme di opere, di costruzioni, di obiettivi raggiunti, ma anche di equivoci, di errori, di assurdità. Di torri di Babele, appunto.
Noi che, per dirla con Montale, siamo «della razza di chi rimane a terra», osserviamo dal basso gli edifici e li troviamo complessivamente belli, ma anche storti, a volte incombenti. Devono essere stati rovinati da qualche vizio di progettazione, se ci appaiono così inclinati e in equilibrio provvisorio.
Certo, non c’è tragicità nelle opere di Petrus. I colori smaltati, la luce piena e cristallina che le inonda, comunica a prima vista un’idea di serenità. Tuttavia una sottile inquietudine percorre sotterraneamente i suoi lavori più recenti: l’idea di addendi infiniti che non possono portare a una somma, perché la somma, l’approdo finale, non esiste. Se le sue architetture non hanno come sfondo un cielo rassicurante (l’azzurro è una scelta cromatica che può essere sostituita dal rosso o dal giallo), le sue geometrie non hanno né inizio né fine. Le case di mille piani, le scalinate cromatiche dei suoi ultimi quadri sono spazi abitati solo dal colore, che non hanno più una funzione pratica, abitativa.
De Chirico, un maestro su cui Petrus ha riflettuto, consigliava di «vivere nel mondo come in un immenso museo di stranezze, pieno di giocattoli bizzarri, variopinti, che cambiano aspetto, che a volte come bambini rompiamo per vedere come sono fatti dentro. E, delusi, ci accorgiamo che sono vuoti». Anche Petrus ha spezzato le sue architetture, le ha scomposte in piani, ma a differenza del Pictor Optimus non è giunto alla tragica conclusione che non abbiano senso. Si è accorto semmai che sono pura musica: un’armonia, ma anche una disarmonia, che non smettono di risuonare nello spazio.
Petrus, del resto, è attratto dall’architettura, ma anche dalla geometria di cui l’architettura è composta. E geometria significa prima di tutto, per lui, solidità e pienezza volumetrica. Non ha mai pensato di dipingere, poniamo, il Duomo di Milano con le sue guglie, tese come frecce verso il cielo (quelle guglie che Sironi, maestro di firmitas classica, chiamava irriverentemente «gli asparagi»). Eppure le aveva sotto gli occhi continuamente, da quando ancora bambino si era trasferito con la famiglia a Milano. Il gotico, come il barocco, non gli interessano, e non tanto perché il suo sguardo sia rivolto alla modernità, ai tempi che ci appartengono anche se non sono immediatamente i nostri, quanto perché ad affascinarlo sono le forme chiuse e i volumi, più che il linearismo o l’arabesco. Nemmeno gli edifici Liberty, che pure a Milano e in Lombardia sono tanti, compaiono infatti nella sua pittura e possiamo scommettere (ma non vorremmo porre limiti all’inventio dell’artista…) che non compariranno mai.
Geometria, inoltre, per Petrus significa anche essenzialità. Nelle sue case non vedrete mai un inquilino, mai un vaso di fiori alle finestre, mai un motivo o un dettaglio che non sia un puro elemento architettonico. Gli sta a cuore una composizione senza pleonasmi, capace di non disperdersi nella narrazione, meno che mai nell’aneddoto. Tuttavia, come osserviamo per esempio nelle Sequenze, 2011, la sua pittura di architettura può significare anche un affollarsi di dettagli, un sovrapporsi surreale di edifici diversi, che fanno pensare a certi disegni di Feininger o a certi fotomontaggi di Paul Citroen (Metropolis, 1923).
Le sue geometrie, in realtà, possono essere tratte da opere di architettura, ma può anche svincolarsene diventando indipendenti, in un processo sempre più evidente che va dalla rappresentazione al ritmo, dalla raffigurazione venata di un realismo metafisico (quasi un realismo magico, verrebbe da dire) della sua prima stagione espressiva alla pura costruzione di forme della sua stagione attuale. In opere come M 21 del 2016 qui esposta, o, più ancora, come M 9 del 2015 e M 19, sempre del 2016, vediamo un intreccio di pilastri o lesene che ormai sono solo superfici.
Astrazione o neoastrazione, dunque? Approdo a quel linguaggio “freddo”, che in questi anni sembra prevalere nel gusto e nel panorama espressivo? Il problema, ci sembra, non va affrontato in questi termini. C’è piuttosto nel lavoro di Petrus una vocazione enumerativa, una serialità misteriosa, un comporre per via di scalinate architettoniche e scale musicali che può tradursi in elementi plastici (la serie dei balconi, delle finestre, dei piani di un edificio) oppure in elementi bidimensionali, in strisce rettangolari. O in altro ancora.
Nelle sue opere, allora, bisogna cercare il ritmo. Uno scrittore come Salvatore Cambosu diceva ai suoi alunni, facendoli leggere una pagina di poesia: «Non importa se non capisci, segui il ritmo». Anche nelle opere di Petrus dobbiamo seguire il ritmo. Forse non c’è più nulla da capire. C’è da osservare un moto di diastole e sistole, una scansione di forme, una composizione che diventa numero (ritmo, etimologicamente, appartiene alla stessa famiglia di “aritmetica”), ma che non smette di splendere nel colore. Perché, alla fine, è l’armonia a vincere.
TRA EQUILIBRIO E SQUILIBRIO
C’è una trasfomazione continua nei quadri di Petrus, che però a volte sfugge, perché la coerenza dei suoi temi può ingannare. Accade cioè all’artista milanese quello che accade (non è un paragone, si intende, semmai un augurio) a maestri come Morandi. Di lui si ha l’idea che abbia dipinto sempre vasi e bottiglie, ma in realtà il suo stile e il suo linguaggio si modificano negli anni, dalla stagione metafisica a quella più sensibilistica degli anni trenta, a quella materica che Arcangeli poté paragonare all’informale.
Di Petrus abbiamo l’idea che abbia sempre dipinto architetture. Ma come le ha dipinte? Un breve excursus lungo il suo percorso espressivo può aiutarci a comprendere le differenze che esistono nel suo lavoro e che testimoniano un’ansia di ricerca incapace di adagiarsi nelle ripetizioni e nelle formule.
Muoviamo da Notturno, del 1993. Petrus aveva allora trentatré anni, ma il suo cursus honorum era ancora relativamente breve. Solo due anni prima aveva tenuto la prima personale alla Galleria Noa di Milano, presentato da un protagonista della poesia visiva come Vincenzo Accame (autore, fra l’altro, di testi illuminanti su Jarry) e da un critico come Alessandro Riva, che sarà sempre tra i più vicini all’artista. Nello stesso 1993 l’artista tiene la prima personale in uno spazio pubblico, al Centro San Fedele, e scrivono di lui sia, nuovamente, Riva che una storica dell’arte e dell’architettura come Rossana Bossaglia, cui si deve la riscoperta del Novecento Italiano1. (Per inciso, parla di lui anche Marina De Stasio, sensibile interprete della pittura del momento, troppo presto sottratta agli studi e alla vita). È una presenza, quella al Centro San Fedele, che segnaliamo non perché rivesta chissà quale rilevanza strategica, ma perché può assumere un accento simbolico, come un ideale passaggio di testimone. Negli anni Cinquanta infatti lo spazio dei Gesuiti aveva accolto per primo i giovani del Realismo esistenziale, uno degli ultimi movimenti che hanno dipinto la vita della città moderna e che non è stato privo di influssi sullo stesso Petrus.
Ma come si era avvicinato al mondo della pittura il giovane artista? La sua formazione, come è stato più volte scritto, non avviene in accademia ma in famiglia, perché Marco è figlio d’arte, cioè del pittore Vitale Petrus, nato a Kiev in Ucraina nel 1934 e scomparso prematuramente a Milano a soli cinquant’anni.
Vitale è stato, a partire dagli anni Cinquanta-Sessanta, l’intenso interprete di una figurazione dagli accenti visionari che andrebbe meglio conosciuto. La storia del “milanesissimo” Marco Petrus, del resto, è più complessa di quanto si possa immaginare a prima vista. I suoi antenati erano friulani e nell’Ottocento uno di loro cercò fortuna in Russia, dove trovò lavoro nelle cave di marmo del paese. La nonna dell’artista sposò un ucraino, Alessandro Petrus, padre di Vitale, ma nel 1938, durante il periodo terribile delle purghe staliniane, la famiglia rientrò in Italia e andò ad abitare a Udine. I contatti con la Russia si interruppero.
Vitale studia all’accademia di Venezia con Saetti e fa tesoro nei suoi quadri delle suggestioni del colore veneto. A Venezia conosce la sua futura moglie, Giuliana, che era di Rimini ed è per questo che Marco, per tornare a lui, nel 1960 nasce nella cittadina romagnola. Rimini è però solo una parentesi. Nel 1963 la famiglia lascia il Veneto e si trasferisce a Sesto San Giovanni, alle porte di Milano. È il periodo, alla metà degli anni Sessanta, in cui a Sesto si forma nel quartiere delle Botteghe una sorta di quartiere degli artisti. Aprono lo studio nella cittadina pittori e scultori come Nagasawa, Castellani, Forgioli, Simeti, Barbanti e altri ancora: un mondo che lascia qualche traccia nell’infanzia di Marco. Nel 1965, infine, Vitale e la famiglia si trasferiscono a Milano e, nel 1969, in via Solferino, in tempo per cogliere gli ultimi momenti di vitalità del vicino Bar Jamaica, che negli anni precedenti era stato il leggendario ritrovo degli artisti milanesi.
Marco intanto compie studi disordinati, lavora come apprendista in una stamperia d’arte, si interessa alla fotografia, compie un viaggio in Sudamerica e si iscrive alla facoltà di architettura. Alla scomparsa del padre, nel 1984, apre una stamperia che, oltre a garantirgli un lavoro, diventa un luogo di incontro per gli artisti.
Ma veniamo a Notturno. È una veduta di Milano, l’eco delle passeggiate che Petrus amava fare di notte, nella città deserta e quasi metafisica, finalmente immobile, senza macchine, senza corse, senza nessuno. Nel quadro la figura non compare, e la sua assenza rimarrà sempre un tratto distintivo della pittura dell’artista. Come mai, ci si potrebbe chiedere? Per esprimere un senso di solitudine? In realtà non è quel sentimento che interessa a Petrus, come del resto i sentimenti in genere. Le sue architetture non hanno mai accenti psicologici, emotivi, tanto meno malinconici e, tutto sommato, godono di ottimo umore. Piuttosto la figura infrangerebbe l’atmosfera straniata, vagamente onirica, della composizione, insinuando nell’immagine un verismo che non appartiene alla poetica dell’artista. Da un punto di vista formale, poi, la sua presenza spezzerebbe la compattezza del disegno, l’asserragliarsi delle masse architettoniche.
La stesura di Notturno, peraltro, è più lieve e sensibilistica rispetto alle opere successive dell’artista. Ne è un indizio, oltre al titolo “atmosferico”, l’attenzione alle ombre della notte, al cielo con le sue matasse di nuvole, alla superficie del manto stradale coi suoi mutamenti cromatici. La pittura ha qualcosa di corsivo, una grafia meno consistente, sottolineata dalla lontananza del punto di vista e dall’esilità dei lampioni, che scandiscono lo spazio vuoto in primo piano. Gli echi di Sironi si mescolano a quelli di Hopper e di un certo realismo esistenziale.
Lo stesso stile si ritrova in un’altra opera del 1993, Tram, un veicolo giallo che ricorda lo stesso motivo del Paesaggio urbano con tram sempre di Sironi, conservato a Milano al Museo del Novecento. Anche qui la stesura, articolata in tratteggi e ombreggiature, è più immediata rispetto ai quadri successivi.
Il linguaggio cambia nelle seconda metà del decennio, come si vede per esempio nei paesaggi urbani con la Torre Velasca del 1996 o con la Ca’ Brṻta del 1998. Qui la composizione non è più una veduta di Milano e l’attenzione dell’artista si sofferma su un singolo edificio: un esempio significativo (e non di rado dimenticato) dell’architettura del ventesimo secolo, quasi sempre del “Novecento” architettonico che ha in Muzio il suo maggior protagonista.
La pittura di Petrus è ormai nettamente concettuale. In Ca’ Brṻta non ci sono più pittoricismi se non quelli, appena accennati, del cuneo frangitraffico in primo piano, e l’opera suggerisce un senso di straniamento metafisico. L’angolatura della composizione, inoltre, è insolita. Quante volte è stata fotografata la Ca’ Brṻta, quante volte l’abbiamo vista sui manuali di architettura? Tante, ma nessuno l’ha mai ripresa da quell’altezza di via Turati. Non è un caso: gli elementi più tipici del capolavoro di Muzio sono l’arco palladiano (che congiunge i due corpi dell’edificio) e i suoi ordini semplificati, secondo la sintesi che era al centro anche della poetica del “Novecento” di Sironi e Margherita Sarfatti. Petrus invece non è interessato alla descrizione didattica degli edifici. Gli interessa la straordinaria stagione artistica degli anni Venti per la sua sobria imponenza classica, ma ne elude gli elementi più caratteristici. Il quadro nasce da un accostamento di volumi definiti nitidamente, ma evita l’icona del monumento. Se quei volumi, anziché appartenere a un edificio, fossero soltanto cubi sovrapposti, per lui sarebbe quasi lo stesso.
Certo, Petrus è, a partire dagli anni Novanta, l’artista che più ampiamente si è ispirato alle vicende storiche dell’architettura del ventesimo secolo, soprattutto degli anni fra le due guerre, a Milano ma anche in luoghi diversi, come Venezia, Trieste, Lubiana, Londra, Shangai, New York, Praga, Mosca, Napoli e in altre città ancora. I suoi veri schizzi, i suoi studi preparatori sono le fotografie che scatta per le strade, trovando angolature e inquadrature inedite. In accordo con la grande lezione di Gabriele Basilico, è stato un interprete della vicenda espressiva novecentista, rimasta fino a poco tempo fa nascosta o sottovalutata. Del resto la bellezza di una certa architettura del secondo e terzo decennio del secolo scorso è stata riscoperta non dagli storici dell’arte, ma dai fotografi, dai registi, dai pubblicitari, dai grafici. E dai pittori come Petrus.
Detto questo, bisogna subito aggiungere che l’opera dell’artista milanese non è mai stata un’illustrazione dell’architettura, ma una ricerca formale autonoma, che ha trovato in quelle costruzioni uno spunto per dire la propria verità. Per dire altro.
Continuiamo però a seguire il suo percorso. Intorno al 1998 i quadri di Petrus mutano ancora fisionomia. Osserviamo Casa, 1998. È il dettaglio di un edificio milanese di via Vettor Pisani, all’incrocio con quella via Tunisia che l’artista ha sempre amato. «Mi ricorda New York, per i palazzi che trovo uno più bello dell’altro, dagli anni Trenta in poi. È tutto l’insieme tra quegli edifici e la strada che costituisce un’opera d’arte» ha dichiarato in un’intervista recente. (Massimiliano Chiavarone, Milano è la mia palestra: Mi sono allenato per dipingere la sua pelle. L’artista Marco Petrus e il rapporto con la città, «Il Giorno», 24 maggio 2015)
In Casa all’ortogonalità precedente subentra una composizione impostata sulle oblique, mentre alla riproduzione totale del corpo architettonico si sostituisce un frammento. Non si tratta di un metamorfosi definitiva, come si vede in opere successive che mantengono una dominante verticale (Torre, 2000). Tuttavia è un mutamento evidente, nel prevalere delle diagonali e nel punto di vista ravvicinato che fa quasi dimenticare il soggetto, trasformandolo in una pura geometria.
Il rovesciamento dell’angolatura nasce da quella ricerca continua di nuovi spunti e motivi che, abbiamo visto, anima la pittura dell’artista. Nasce dunque da un’esigenza formale di sperimentazione. Non si può non notare però la tensione e lo squilibrio che introduce nella composizione. Non a caso un’opera di poco successiva, ispirata a un edificio di Bolzano, porta il titolo eloquente di Soqquadro. Gli edifici incombono su di noi e potrebbero rovesciarsi sulla strada. Alla casa come asilo sicuro subentra l’idea di una costruzione come corpo estraneo. Un oggetto noto diventa improvvisamente indecifrabile.
Iniziano in questo periodo, proprio con opere come Soqquadro, anche le visioni dal basso che accentuano la monumentalità dell’architettura: una monumentalità non trionfalistica e celebrativa, ma al contrario carica di un accento straniato, come apparirebbe a un Gulliver che si risvegliasse improvvisamente tra i giganti di Brobdingnag. Certo, a differenza del romanzo di Swift, non troviamo niente di sarcastico in quelle architetture pericolanti, eppure il loro incombere ha qualcosa di anticlassico e subentra alla classicità moderna che Petrus aveva a lungo cercato e rappresentato.
Il passo ulteriore si osserva in Upside down, 2002. Il quadro si ispira a un edificio di via Dante a Udine, ma il suo vero soggetto è il gioco di specchi della costruzione, che in alto appare rovesciata. La visione limpida dei quadri precedenti si sdoppia, come per uno strano sortilegio.
L’angolatura “sottosopra” si declina in vari modi negli anni successivi, accostando architetture diverse della stessa città (come in London suspended, 2003) o architetture di città diverse, in un dialogo irreale (come in Upside down, 2005, dove la torre Rasini-Lancia di Milano è sovrastata da un edificio londinese).
Un capitolo a sé è il gruppo di opere delle Belle città, dove la bellezza dei singoli elementi genera un effetto antigrazioso, gettata com’è in un crogiolo convulso. La bellezza, in realtà, si allontana dal caos delle nostre città.
Un altro capitolo, uguale e contrario, è quello dedicato a Scampia, dove gli errori urbanistici e gli edifici degradati del quartiere napoletano sono tradotti in un disegno ordinato e levigato. Petrus non è interessato alla pittura civile e sociologica ma, paradossalmente, compie anche lui una denuncia, traducendo la bruttezza di quell’edilizia creatrice di emarginazione in una forma armoniosa e elegante. Che è anche un modo di indicare come le case (e le cose) potrebbero essere, contrapponendole silenziosamente a come sono.
E siamo all’oggi, con i quadri impostati su architetture che sono ormai ritmi di colore. Anzi, forse siamo già al domani. La pittura di Petrus non smette di riservarci delle sorprese. Teniamola d’occhio.